L'arte della quotidianità digitale / english version

In uno scritto introduttivo alla sua installazione "Realtà virtuale uno", Wladimiro Bendandi pone subito un problema che richiederebbe non già un trattato ma un'intera biblioteca incentrata sull'argomento "noi": noi, oggigiorno, non soltanto tendiamo a dimenticare ma siamo anche più superficiali. Con "noi", l'artista intende forse il singolare-plurale umano, l'essere con, l'essere in comune, oppure "noi-epoca", in questo momento storico, entro questo spicchio geografico che è l'Europa, o magari la cosiddetta civiltà occidentale, o anche, noi globalizzati, mondializzati, noi portatori del pensiero unico? Diamo per scontato che quel noi si riferisca a una "società", la nostra, nell'epoca, parafrasando Heidegger, dell'imposizione della tecnica, della subordinazione dell'uomo alla tecnica, al suo esserne dominato invece di dominarla. Dire che siamo nell'epoca della realtà virtuale, parlando di arte, non ha molto senso: l'arte è sempre stata virtuale: un quadro del Rinascimento, una scultura dell'età classica-greca, un'incisione rupestre del Neolitico, ecc. Ici n'est pas une pipe, direbbe ancor'oggi Magritte. Parrebbe più corretto precisare che viviamo nell'epoca della realtà virtuale digitalizzata. Per conto mio, però, preferisco l'affermazione di Heidegger.
Come che sia e fermo restando la libertà di interpretazione, Bendandi scrive, come detto innanzi, che noi, oggi, tendiamo a dimenticare e siamo superficiali (nelle analisi visive come in tante altre cose). Conformandomi al suo gioco linguistico, voglio aggiungere che siamo "confusi". E se non avessi altri riscontri (potrei enumerarne migliaia), lo dedurrei dalla sua installazione. Non già nel senso che la sua "opera" sia confusa, ma in quello che essa interpreta la confusione che domina il mondo in questo particolare momento storico e la rende esplicita con un procedimento "ordinato" e, nello stesso tempo, pregno di "leggerezza" (stavo per dire, razionale e semplice, ma sono parole di altri tempi). Riproponendo il vecchio Lukàcs si può dire che la confusione non è il caos ed è per questo che essa è rappresentabile; il caos non è immaginabile da mente umana: neppure l'Apocalisse di Giovanni è stata capace di renderlo. Deve ricorrere a un'allegoria, cioè a una favola.

Dunque, tendiamo a dimenticare (banalmente: abbiamo perduto la memoria storica), siamo superficiali in quanto abbiamo difficoltà a distinguere e finiamo per raggruppare elementi e fenomeni non in base a una "verità" di fondo (di fondazione, di origine), ma per verosimiglianza che è appunto categoria di superficie: siamo confusi. La confusione può essere esterna a noi: mescolanza, disordine, scompiglio, oppure interna: stato della mente che è incapace di discernere il vero. E siccome "vero" e "verità" appartengono al vocabolario metafisico che i maggiori pensatori contemporanei vorrebbero "oltrepassare", limitiamoci a dire: stato della mente incapace di discernere il reale, la realtà. Non si tratta di una malattia mentale o non ancora, ma sicuramente di un sintomo che precede e accompagna un disagio generale e proprio questa generalità ci deve far riflettere. Si potrebbe dire che siamo tutti nella stessa barca, chi in modo consapevole e chi senza rendersene conto, in un mare piuttosto agitato. Si parla infatti di un pianeta malato: terra mare aria, piante animali umani. Un equilibrio si è rotto, qualcuno scrive di un punto di non ritorno.
Con uno stratagemma, Bendandi allegorizza uno spicchio di realtà alla portata di tutti, una realtà "quotidiana" che la tecnologia ha reso in parte aliena. In casa mia, per esempio, per mezzo di cinque pulsanti posso, con modalità diverse, far funzionare cinque apparecchi (elettrodomestici?) differenti. Non è il caso qui di ripetere le parole che pronuncio quelle volte che adopero uno di essi al posto di un altro. Tanto più che, quello che serve, guarda caso, non si trova mai a portata di mano. Ancora un esempio: avevo un forno a microonde che funzionava perfettamente. Quando si è rotto era intenzione mia e della mia compagna riprenderne uno uguale. Figurarsi la faccia del venditore: ma andiamo, lei… una persona così moderna, non vorrà mica… ecc. Conclusione, abbiamo preso un forno a microonde con molti bottoni e bottoncini, orologi e una miriade di ideogrammi, in grado di svolgere mille funzioni: ora giace inutilizzato nella sua nicchia, monumento del consumismo alla vanità e alla imbecillità. La mia, tuttavia, è ben lontana dall'essere la "casa intelligente" già raffigurata in vario modo dalle riviste del settore: immaginarsi, al suo interno, le disavventure tragicomiche di un povero Charlot postmoderno o, magari, le nuove "vacanze" del signor Hulot di un Jaques Tati redivivo.
Questi vari utensili cui ho fatto cenno, sono corredati da ideogrammi, più segnali che segni, per dirla con i semiologi. Stravagante questa "evoluzione" di una scrittura che all'inizio della civiltà umana era partita dal pittogramma per passare all'ideogramma e infine alla scrittura alfabetica lineare. Ora, con un ricorso storico paradossale, mentre la tecnologia ci sbalordisce con apparecchiature da fantascienza, utilizza una scrittura appartenente a una civiltà che, in Europa, precede l'età del bronzo. Naturalmente Bendandi coglie questo aspetto reale (o del reale) e lavora su di esso trasfigurandolo in un linguaggio figurato. Fotografa questa tipologia di ideogrammi, "eliminandoli dalle loro sedi originarie", sostituendoli con "simboli dalla forma grafica e dal significato" differenti, "andando a modificare la riconoscibilità dell'elemento a cui appartengono" (cito l'artista per evidenziarne la consapevolezza). Così, nella fotografia come nel video, gli ideogrammi prima si miscelano, "poi si posizionano in sedi diverse dalle originali stravolgendo il significato della lettura e modificando la riconoscibilità dell'oggetto". Bendandi dunque trasporta dalla realtà alla scrittura (o se si vuole al linguaggio) quello stesso Displacement che ci procura disagio: organizza il disordine moltiplicando i segnali fuori contesto, provocando ciò che i semiologi chiamano "rumore della comunicazione". Direi con molta ironia e, certamente nel mio caso, autoironia di lettore.

La quotidianità di Bendandi, come la nostra in generale, assomiglia superficialmente più ad un laboratorio della Nasa in cui, come dicono gli ottimisti, si costruisce il futuro. Curiosa l'assenza, nell'installazione, di ogni e qualsiasi forma umana o segno che riproduca il "volto" (Levinas) umano. Anche questo aspetto viene colto dall'artista secondo un pensiero, oggi, molto diffuso. Si tratta della sconfitta dell'umanesimo da parte di quell'imposizione della tecnica di cui si è detto. Un ben strano futuro a pensarci bene ci aspetterebbe. Ci rendiamo conto di ciò che stiamo perdendo? Come scriveva Hölderlin: "Pieno di merito, ma poeticamente abita / l'uomo su questa terra". Vogliamo cancellare quel poeticamente a favore del merito? Certo non è facile pensare di cambiare un mondo che già sta cambiando per conto suo: lo constatava Heidegger a proposito di una famosa tesi di Marx. Ma allora che fare? Credo che questi aspetti dell'esistenza singolare/plurale (e della prassi) vadano ripensati integralmente. Dopotutto pensare è già un fare: "Nessuna cosa è dove manca la parola" (Stefan George) o l'immagine. In questo ambito è da sottolineare la radicalità dell'arte: l'irriducibile insofferenza nei confronti di tutto ciò che si vorrebbe costituito.
Da quanto scritto si può dedurre che le problematiche sollevate da Bendandi sono straordinariamente ricche: è giusto apprezzarne la leggerezza e l'ironia non disgiunte dalla complessità e dall'attualità.

Giulio Guberti